UN FALSO PROBLEMA...
La precarietà del lavoro, l’insicurezza e la sofferenza
sociale che essa genera sono figli di un falso problema, malamente affrontato e
mai risolto: quello dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Anche l’ultima soluzione adottata con la recente ed ennesima legge sul lavoro, temiamo che risolva davvero poco.
Sarà dunque il caso di prender coraggio e dire finalmente la verità.
Che un licenziamento di un lavoratore debba avere una sua giustificazione è un fatto talmente evidente che sembra assurdo se ne debba discutere. Si tratta di un essere umano che dal lavoro trae, insieme ai mezzi di sussistenza per sé e la sua famiglia, anche le ragioni della sua degna e libera esistenza. Non può dunque neppure lontanamente concepirsi che un capriccio di un datore di lavoro possa violare un diritto così evidente e sacro.
Riteniamo dunque che ogni tipo di rapporto di lavoro dovrebbe godere di una sacrosanta tutela reale e che tale tutela, riguardando un diritto fondamentale dell’uomo, non dovrebbe mai essere limitato, o messo in discussione. La tutela andrebbe dunque estesa a tutte le categorie e non conculcata da novelle legislative che rendono precario il lavoro. Tutti i lavoratori dovrebbero poterne godere appieno, indipendentemente dalla dimensioni dell’azienda e da ogni altra considerazione.
L’art. 18 è dunque espressione di un principio sacrosanto che nessun uomo può mettere in discussione, se lo valuta con la dovuta onestà intellettuale.
Eppure tale principio è stato aggredito da una abnorme e, come si vedrà, anche inutile serie di leggi sul lavoro emanate per pigrizia o paura d’affrontare il vero nodo rappresentato dalla sua concreta applicazione.
Male, molto male, perché si è finito per gettare, o almeno tentare di gettare, insieme “il bambino” e “l’ acqua sporca”, ovvero “il principio” sacrosanto di non poter essere licenziati senza una giusta causa od un giustificato motivo e “la sua sporca applicazione”.
E’ avvenuto infatti che dapprima sono state escluse dalla tutela reale del reinserimento al lavoro i dipendenti delle aziende con un numero di dipendenti inferiori a quindici, come se fossero figli di un dio minore e non anch’essi uomini con gli stessi diritti e doveri dei dipendenti di aziende più grandi; poi sono stati inventati i contratti a termine e tutte le altre forme di lavoro precario che tanto male hanno prodotto per i lavoratori e l’economia tutta. Si è perso di vista il fatto che il benessere e la serenità dei lavoratori produce ricchezza e benessere per l’intera società.
Invece andava finalmente e coraggiosamente stabilito che il principio della tutela del lavoro doveva essere esteso a tutti i lavoratori e che nessun contratto doveva essere a tempo determinato. Ma, nel contempo, andava anche finalmente chiarito e stabilito definitivamente cosa fosse da intendere una giusta causa, o un giustificato motivo di licenziamento. Non solo, ma che l’esito di un’eventuale impugnativa di licenziamento doveva essere decisa presto e bene. Per farlo non poteva più farsi riferimento alla magistratura del lavoro che, non solo ha i suoi tempi biblici, ma che tanti guasti ha prodotto con diverse assurde sentenze, che tanta indignazione hanno prodotto, finendo per creare una reazione di rigetto del sacro principio dell’art. 18, invece del rigetto dei sistemi coi quali tale principio viene tutelato. Occorreva invece salvare ed estendere il principio affidandone la verifica di corretta applicazione ad un altro giudice più tecnico, più veloce e più credibile
Alcune sentenze, chiaramente preconcette e di sinistro sapore demagogico, sono servite da protezione a “lavativi” e talvolta “tracotanti” pseudo lavoratori che , pur colpevoli di gravissima e volgare insubordinazione, talvolta configuranti veri e propri reati, hanno ottenuto il reinserimento al lavoro, provocando un’indignazione che ha alimentato i sentimenti contrari al contenuto stesso dell’articolo 18. Tale razione contro il giusto principio è stato alimentato dall’atteggiamento colpevole dei cosiddetti sindacati maggiori che invece di proteggere i lavoratori onesti hanno finito per danneggiarli, ergendosi a difesa di lavoratori indegni ed alimentando così i sentimenti contrari al principio de quo.
Come si sarebbe dunque dovuto fare, e come ancor oggi si potrebbe e si dovrebbe fare, se si volesse davvero risolvere insieme il problema della tutela dei lavoratori e quello del datore di lavoro di poter effettivamente licenziare chi abbia commesso irregolarità gravi sul lavoro?
La nostra idea è questa.
Anzitutto basterebbe buona fede e distanza dal proprio credo politico. In concreto si dovrebbe estendere a tutti i lavoratori le tutele dello statuto dei lavoratori (L.300/72), articolo 18 compreso. Tutti i lavoratori dovrebbero quindi essere assunti a tempo indeterminato e tutelati contro i licenziamenti illegittimi. Ma, al tempo stesso, si dovrebbero stabilire i principi in base ai quali sia possibile licenziare e le procedure sicure e veloci per poterlo fare senza i guasti di una giustizia lenta, insicura e preconcetta.
Per esempio, costituendo commissioni di tecnici veri (consulenti del lavoro e commercialisti esperti in materia di lavoro ed escludendo possibilmente i politici ed i teorici legulei) che dovrebbero lavorare moltissimo, calandosi, senza timore di “sporcarsi le mani”, nella vera realtà del lavoro, per definire con dovizia di particolari e dettagliatamente le singole ipotesi di giusta causa, o giustificato motivo di licenziamento. Non solo, ma dovrebbero anche sostituire i giudici ordinari nelle cause riguardanti le impugnative di licenziamento. Tali cause dovrebbero essere da loro decise in massimo trenta giorni e forse senza nessuna possibilità d’appello.
Per garantire la qualità di questi tecnici, sarebbe utile prevedere la nomina di apposite commissioni, competenti per un certo territorio, i cui membri, scelti tra i consulenti del lavoro ed i dottori commercialisti esperti, dovrebbero essere eletti per la metà dai sindacati dei lavoratori, e per l’altra metà dalle associazioni dei datori di lavoro. Meglio se, per limitare al massimo i costi delle commissioni, queste venissero affidate ai professionisti anziani esperti e pensionati, ma parlare di questo è ovviamente prematuro.
In questo modo il precariato verrebbe definitivamente superato e finalmente la meritocrazia potrebbe trovare il suo tornaconto.
Troppo bello per essere vero?
Anche l’ultima soluzione adottata con la recente ed ennesima legge sul lavoro, temiamo che risolva davvero poco.
Sarà dunque il caso di prender coraggio e dire finalmente la verità.
Che un licenziamento di un lavoratore debba avere una sua giustificazione è un fatto talmente evidente che sembra assurdo se ne debba discutere. Si tratta di un essere umano che dal lavoro trae, insieme ai mezzi di sussistenza per sé e la sua famiglia, anche le ragioni della sua degna e libera esistenza. Non può dunque neppure lontanamente concepirsi che un capriccio di un datore di lavoro possa violare un diritto così evidente e sacro.
Riteniamo dunque che ogni tipo di rapporto di lavoro dovrebbe godere di una sacrosanta tutela reale e che tale tutela, riguardando un diritto fondamentale dell’uomo, non dovrebbe mai essere limitato, o messo in discussione. La tutela andrebbe dunque estesa a tutte le categorie e non conculcata da novelle legislative che rendono precario il lavoro. Tutti i lavoratori dovrebbero poterne godere appieno, indipendentemente dalla dimensioni dell’azienda e da ogni altra considerazione.
L’art. 18 è dunque espressione di un principio sacrosanto che nessun uomo può mettere in discussione, se lo valuta con la dovuta onestà intellettuale.
Eppure tale principio è stato aggredito da una abnorme e, come si vedrà, anche inutile serie di leggi sul lavoro emanate per pigrizia o paura d’affrontare il vero nodo rappresentato dalla sua concreta applicazione.
Male, molto male, perché si è finito per gettare, o almeno tentare di gettare, insieme “il bambino” e “l’ acqua sporca”, ovvero “il principio” sacrosanto di non poter essere licenziati senza una giusta causa od un giustificato motivo e “la sua sporca applicazione”.
E’ avvenuto infatti che dapprima sono state escluse dalla tutela reale del reinserimento al lavoro i dipendenti delle aziende con un numero di dipendenti inferiori a quindici, come se fossero figli di un dio minore e non anch’essi uomini con gli stessi diritti e doveri dei dipendenti di aziende più grandi; poi sono stati inventati i contratti a termine e tutte le altre forme di lavoro precario che tanto male hanno prodotto per i lavoratori e l’economia tutta. Si è perso di vista il fatto che il benessere e la serenità dei lavoratori produce ricchezza e benessere per l’intera società.
Invece andava finalmente e coraggiosamente stabilito che il principio della tutela del lavoro doveva essere esteso a tutti i lavoratori e che nessun contratto doveva essere a tempo determinato. Ma, nel contempo, andava anche finalmente chiarito e stabilito definitivamente cosa fosse da intendere una giusta causa, o un giustificato motivo di licenziamento. Non solo, ma che l’esito di un’eventuale impugnativa di licenziamento doveva essere decisa presto e bene. Per farlo non poteva più farsi riferimento alla magistratura del lavoro che, non solo ha i suoi tempi biblici, ma che tanti guasti ha prodotto con diverse assurde sentenze, che tanta indignazione hanno prodotto, finendo per creare una reazione di rigetto del sacro principio dell’art. 18, invece del rigetto dei sistemi coi quali tale principio viene tutelato. Occorreva invece salvare ed estendere il principio affidandone la verifica di corretta applicazione ad un altro giudice più tecnico, più veloce e più credibile
Alcune sentenze, chiaramente preconcette e di sinistro sapore demagogico, sono servite da protezione a “lavativi” e talvolta “tracotanti” pseudo lavoratori che , pur colpevoli di gravissima e volgare insubordinazione, talvolta configuranti veri e propri reati, hanno ottenuto il reinserimento al lavoro, provocando un’indignazione che ha alimentato i sentimenti contrari al contenuto stesso dell’articolo 18. Tale razione contro il giusto principio è stato alimentato dall’atteggiamento colpevole dei cosiddetti sindacati maggiori che invece di proteggere i lavoratori onesti hanno finito per danneggiarli, ergendosi a difesa di lavoratori indegni ed alimentando così i sentimenti contrari al principio de quo.
Come si sarebbe dunque dovuto fare, e come ancor oggi si potrebbe e si dovrebbe fare, se si volesse davvero risolvere insieme il problema della tutela dei lavoratori e quello del datore di lavoro di poter effettivamente licenziare chi abbia commesso irregolarità gravi sul lavoro?
La nostra idea è questa.
Anzitutto basterebbe buona fede e distanza dal proprio credo politico. In concreto si dovrebbe estendere a tutti i lavoratori le tutele dello statuto dei lavoratori (L.300/72), articolo 18 compreso. Tutti i lavoratori dovrebbero quindi essere assunti a tempo indeterminato e tutelati contro i licenziamenti illegittimi. Ma, al tempo stesso, si dovrebbero stabilire i principi in base ai quali sia possibile licenziare e le procedure sicure e veloci per poterlo fare senza i guasti di una giustizia lenta, insicura e preconcetta.
Per esempio, costituendo commissioni di tecnici veri (consulenti del lavoro e commercialisti esperti in materia di lavoro ed escludendo possibilmente i politici ed i teorici legulei) che dovrebbero lavorare moltissimo, calandosi, senza timore di “sporcarsi le mani”, nella vera realtà del lavoro, per definire con dovizia di particolari e dettagliatamente le singole ipotesi di giusta causa, o giustificato motivo di licenziamento. Non solo, ma dovrebbero anche sostituire i giudici ordinari nelle cause riguardanti le impugnative di licenziamento. Tali cause dovrebbero essere da loro decise in massimo trenta giorni e forse senza nessuna possibilità d’appello.
Per garantire la qualità di questi tecnici, sarebbe utile prevedere la nomina di apposite commissioni, competenti per un certo territorio, i cui membri, scelti tra i consulenti del lavoro ed i dottori commercialisti esperti, dovrebbero essere eletti per la metà dai sindacati dei lavoratori, e per l’altra metà dalle associazioni dei datori di lavoro. Meglio se, per limitare al massimo i costi delle commissioni, queste venissero affidate ai professionisti anziani esperti e pensionati, ma parlare di questo è ovviamente prematuro.
In questo modo il precariato verrebbe definitivamente superato e finalmente la meritocrazia potrebbe trovare il suo tornaconto.
Troppo bello per essere vero?
Studio Oliviero - Napoli
Aumenti delle addizionali IRPEF : Pensioni e buste paghe più leggereUn pensionato con un assegno di 1.000 euro al mese, tra il 2010 e il 2014 ha subito un aggravio medio di 85 euro (+34%). A livello territoriale l’aumento massimo si è registrato a Catanzaro: + 149 euro, pari ad una variazione del +49%.
Un operaio con uno stipendio mensile netto pari a poco più di 1.280 euro, ha visto aumentare in questi ultimi 5 anni il carico fiscale di 121 euro (+36%). A Venezia l’incremento è stato pesantissimo: +237 euro, pari al +126%. Un impiegato con uno stipendio di quasi 2.000 euro al mese, ha versato 189 euro in più, pari ad un aumento del 30%. A Napoli e Catanzaro si sono registrati gli incrementi più significativi: + 335 euro (pari al +49%). Un quadro con uno stipendio mensile di 3.000 euro al mese, ha subito, invece, un aggravio di 324 euro (+31%). A livello territoriale nei Comuni di Napoli e di Catanzaro si sono verificati gli incrementi più significativi: + 549 euro (+49%). Come si è giunti a questi risultati? Per cercare di quantificarne il peso e comprendere come si è evoluto il fenomeno, l’Ufficio studi della CGIA ha calcolato gli aumenti delle addizionali IRPEF avvenuti in questi ultimi anni sia a livello regionale che comunale. In questo ultimo caso sono stati analizzati i trend dei Comuni capoluogo di regione. L’incremento del prelievo registrato in questi ultimi anni è dipeso, in larga misura, dalle disposizioni introdotte con il “Salva Italia” che ha elevato le aliquote per tutte le Regioni a partire dal periodo di imposta 2011. Pertanto, dall’anno d’imposta 2012, l’addizionale Irpef regionale è aumentata dello 0,33%. Tuttavia, la situazione a livello territoriale varia da Regione a Regione. Nel 2013, ad esempio, la Calabria, la Campania e il Molise hanno applicato l’aliquota Irpef al 2,03%. Un livello di prelievo obbligato in virtù del fatto che la normativa dispone che le Regioni che presentano un disavanzo sanitario e non hanno rispettato i piani di rientro sono costrette a subire un incremento dell’aliquota di ulteriori 0,3 punti percentuali. In Abruzzo, Lazio e Sicilia, l’aliquota dell’addizionale regionale Irpef è all’1,73%. Le Regioni in cui l’aliquota si attesta al livello base (1,23%) sono la Basilicata, il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, la Valle d’Aosta, il Veneto e le due provincie autonome di Trento e Bolzano. In tutte le altre Regioni, il prelievo varia a seconda dei livelli di reddito. Per quanto concerne le addizionali comunali IRPEF, le scelte dei Comuni sono state tendenzialmente al rialzo con l’unica eccezione di Firenze che ha diminuito il prelievo. Sono 11 i Comuni capoluogo di Regione che nell’arco temporale da noi considerato hanno aumentato le aliquote. Nel 2013, 12 Comuni hanno applicato l’addizionale comunale IRPEF al livello massimo dello 0,8%, tra questi, tre l’hanno aumentato nell’ultimo anno (Venezia, Perugia e Napoli). “Nei prossimi anni – conclude Bortolussi – l’autonomia tributaria delle Regioni è destinata ad aumentare ulteriormente . Il Decreto Legislativo in materia di federalismo regionale numero 68 del 2011, dà la possibilità ai Governatori di aumentare l’aliquota base dell’addizionale regionale di 1,1 punti percentuali a partire dal 2014 e di 2,1 punti percentuali a partire dal 2015. Tale facoltà, sebbene limitata ai redditi superiori al primo scaglione di reddito IRPEF (pari a 15.000 euro) per i quali rimane il limite di maggiorazione di 0,5 punti percentuali, potrà dar luogo ad un ulteriore incremento delle addizionali, con il corrispondente alleggerimento di pensioni e buste paga”.Fai clic qui per effettuare modifiche. Sud, redditi più bassi della GreciaLa crisi degli ultimi anni ha allargato il divario Nord-Sud. Tra il 2007 e il 2012 nel Mezzogiorno il Pil si è ridotto del 10% in termini reali a fronte di una flessione del 5,7% registrata nel Centro-Nord.
Inoltre sempre nel Mezzogiorno i livelli di reddito sono più bassi di quelli della Grecia: 17.957 euro contro 18.454. A dirlo è il Censis, sottolineando anche che dei 505.000 posti di lavoro persi in Italia dall'inizio della crisi, tra il 2008 e il 2012, il 60% ha riguardato il Mezzogiorno Il Censis parla dunque di un Mezzogiorno "abbandonato a se stesso" evidenziando il forte dualismo territoriale. "La produzione industriale a gennaio, con il rialzo mensile più forte da agosto 2011 (+0,8 su dicembre) dimostra che, anche se in un contesto ancora recessivo in tutta Europa, il nostro sistema produttivo da segni di vitalità", ha commentato Luigi Sbarra, segretario confederale Cisl. "Il dato confortante che emerge da quest'ultima rilevazione - ha sottolineato Sbarra - è l'andamento in controtendenza del nostro sistema industriale nei confronti dei paesi europei che in dicembre hanno visto un calo della produzione industriale dello 0,4%". "Anche se il dato tendenziale evidenzia un attenuarsi della discesa che ha segnato tutto il 2012, tuttavia avremo davanti un anno ancora difficile alla luce dei dati previsionali per il 2013, che indicano un peggioramento delle previsioni del Pil per il 2013 sia nella zona euro (-0.5%) che in Italia (-1%). C'è bisogno di una terapia d'urto immediata - ha detto Sbarra - per rimettere in moto l'economia del Paese. L'accordo raggiunto ieri in sede europea circa lo scomputo dei debiti della P.A., nei confronti delle imprese italiane, dal Patto di stabilità va nella direzione da noi più volte sollecitata". La Cisl chiede al governo, al parlamento e ai partiti la massima sollecitudine nell'adottare tutti i provvedimenti necessari per seguire la strada indicata dalla Ue per lo sblocco e il pagamento immediato dei debiti pregressi alle imprese. "Questo - ha concluso - consentirebbe di dare una boccata d'ossigeno a tutta l'economia italiana stretta nella morsa della crisi creditizia. Soprattutto consentirebbe un avvio di ripresa al sistema industriale e a quello delle costruzioni, la cui crisi sta mettendo in fortissima difficoltà tutta la filiera ad esso collegata." Fra i grandi sistemi dell'eurozona - evidenzia il rapporto 'La crisi sociale del Mezzogiornò realizzato dal Censis nell'ambito dell'iniziativa annuale "Un giorno per Martinoli". Guardando al futurò - l'Italia è il Paese con "le più rilevanti" diseguaglianze territoriali. Se si confronta il reddito pro-capite delle tre regioni più ricche e più povere dei grandi Paesi dell'area euro emerge infatti che l'Italia ha il maggior numero di regioni con meno di 20.000 euro pro-capite: 7 rispetto alle 6 della Spagna, le 4 della Francia e una sola della Germania. All'opposto, la Germania ha 10 regioni con oltre 30.000 euro pro-capite, la Francia la sola Ile-de-France, mentre l'Italia ne ha 5 e la Spagna nessuna. Il Centro-Nord con 31.124 euro di Pil per abitante è vicino ai valori dei Paesi più ricchi come la Germania, dove il Pil pro-capite è di 31.703 euro. Inferiore alla Grecia, invece, i livelli nel Mezzogiorno. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, il Sud "paga la parte più cospicua di un costo già insopportabile per il Paese e si conferma come un territorio di emarginazione di alcune categorie sociali, come i giovani e le donne". Il rapporto segnala, inoltre, il rischio di deindustrializzazione, indicando che oltre 7.600 imprese manifatturiere del Mezzogiorno (su un totale di 137.000 aziende) sono uscite dal mercato tra il 2009 e il 2012, con una flessione del 5,1% e punte superiori al 6% in Puglia e Campania. L' Italia del lavoro e le donne, connubio difficileLe scarse politiche per la famiglia, una ancòra insufficiente partecipazione maschile al lavoro domestico e l'inadeguata presenza delle quote rosa nel lavoro, si legge nella nota dell'OCSE, comportano costi tangibili per l'economia italiana. Attualmente il livello di partecipazione femminile al lavoro, in Italia, è pari al 51% contro la media dei Paesi OCSE che si attesta al 65%.
Gli esperti hanno provato a simulare, nell'Italia del 2030, una situazione in cui la partecipazione femminile al lavoro avesse raggiunto e pareggiato quella maschile. A parità di tutte le altre condizioni attuali, l'Italia si ritroverebbe con una forza lavoro accresciuta del 7% con un riflusso positivo che raggiungerebbe, sul Pil pro-capite, la crescita dell'1% annuo. Contro il problema delle disparità lavorative tra uomo e donna si era mobilitata l’anno scorso anche la Commissione Europea: «sono molto preoccupata – aveva affermato infatti la vice presidente Viviane Reding, Commissario per la Giustizia, i diritti fondamentali e la cittadinanza – per il fatto che il divario salariale fra uomini e donne sia diminuito di poco negli ultimi 15 anni e in alcuni paesi sia addirittura in aumento. In questi tempi di crisi, il divario salariale tra i sessi è un costo che l’Europa non può permettersi e occorre far ricorso a tutti gli strumenti a disposizione per colmarlo. Insieme agli Stati membri, la Commissione cercherà di ridurre significativamente il divario salariale tra uomini e donne nell’Unione europea entro la fine dell’attuale mandato». E anche sull’accesso delle donne a posizioni di prestigio pare si stia muovendo qualcosa nel concreto: è di ieri infatti l’approvazione al Parlamento Europeo della risoluzione che invita tutti i Paesi membri a elaborare politiche adeguate per assicurare una maggiore partecipazione femminile nel mondo degli affari. Ad oggi infatti le donne rappresentano soltanto il 10% dei componenti dei Cda delle più grandi società quotate in borsa e la proposta sarebbe quella di introdurre quote minime di presenza, con l’obiettivo di arrivare al 30% nel 2015 e al 40% nel 2010. |
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