Libernews: Buongiorno
professore! Entriamo subito nella sua materia: la gastroenterologia quali parti
del corpo interessa?
Piretta: La
gastroenterologia interessa, dalla bocca all'ano, tutto l'apparato digerente,
compreso il fegato ed il pancreas. All’interno di tutto questo insieme si
possano presentare malattie lievi come la gastrite o gravi come il tumore del
colon, che è una delle principali cause di morte nei paesi occidentali.
L.: Qual è la sua
particolarità rispetto ad altre zone del nostro corpo? P.: Uno degli
aspetti più interessanti degli ultimi tempi in campo gastroenterologico è il
riconoscimento dell'importanza della flora batterica intestinale che si chiama
microbiota e comprende tutti i batteri che popolano il nostro intestino. Forse
è curioso sapere che proprio nel nostro intestino ci sono dieci volte più
batteri di tutte le nostre cellule umane e la somma del loro genoma, ovvero del
loro patrimonio genetico, supera di sessanta volte il nostro; quindi esiste un
tutt'uno fra noi e i batteri che è difficile distinguere nelle separate
identità visto che senza quei batteri noi non potremmo vivere.
L.: Quindi lei sta sottolineando
una distinzione tra i batteri presenti nell’intestino e quelli del resto del
corpo. P.: Lo so, questo
è un aspetto molto curioso. Di solito noi consideriamo i batteri tutti nemici ma
nel nostro organismo risiede una quantità immensa di batteri che hanno con noi
un rapporto di mutua convivenza, creando benefici alla nostra persona, tanto
che si ritiene che un alterato microbiota possa essere all'origine di alcune
malattie, in particolare quelle croniche. Questa è una specie di rivoluzione
culturale che sta avvenendo nella nostra specialità.
L.: Si dice che le
malattie dello stomaco e dintorni possano avere origini nervose. Cosa c’è di
vero in questo? P.: Bisogna
premettere che in questo apparato esistono
malattie acute e malattie croniche;
la più frequente fra quelle croniche è una malattia che viene definita
funzionale ed è la sindrome dell'intestino irritabile, mal chiamata colite.
Questo è un disturbo la cui causa precisa non si conosce ma è legato ad una
disfunzione del sistema nervoso enterico ovvero della pancia, dove risiede una
sorta di vero e proprio secondo cervello, collegato a quello nella testa ma con
percezioni e stimolazioni indipendenti.
L.: Per indipendente
immagino qualcosa che ha potere decisionale autonomo. E’ così? P.: Sì! Per farle
un esempio, l'arrivo di un cibo troppo caldo o troppo freddo può farlo reagire
generando una scarica di diarrea.
L.: E questa azione del “secondo
cervello” è dovuta a una sorta di scelta protettiva o è una semplice reazione? P.: Può funzionare
in entrambi i modi: nel caso di un
arrivo di batteri può andare in diarrea decidendo di eliminarli, nell'altro di
una temperatura troppo alta può farlo per autodifesa.
L.: Volevo chiederle
qualcosa che potrebbe chiarire un dubbio atavico: è più dannoso mangiare tanto
e bene oppure poco e male? P.: Questa domanda
mi piace molto! È scontato dire che fa male mangiare male. Secondo me però
forse è peggio mangiare tanto e bene che poco e male.
L.: Allora ho fatto bene
a chiederlo perché io pensavo il contrario! P.: Quando
parliamo di educazione alimentare e questo vale soprattutto per i giovani
("non mangiare patatine; non bere coca cola!"), il vietare può creare
danni per l'aspetto psicologico, per il senso di accettazione sociale, per la
convivenza e per la necessità di trasgredire che fa parte della natura.
L.: Questo vale anche
per i giovani? Noi pensavamo che un giovane, avendo molte più distrazioni,
risentisse meno dei sacrifici alimentari così duri da rispettare in età avanzata... P.: Un ragazzo
tende più facilmente ad agire d'istinto e spesso non ha la consapevolezza di
ciò che fa bene o fa male;
insistere, in quel caso col proibire un alimento, non ha senso, anzi proibire un
McDonald's saltuario potrebbe avere effetti negativi di altro tipo. Non bisogna
però eccedere neanche con alimenti che si ritiene siano salutari perché, come
diceva Paracelso, è la dose che fa il veleno e anche un “buon” alimento, se
consumato in eccesso, può diventare nocivo. Inoltre il rapporto con gli alimenti
rimane una condizione molto soggettiva e non fanno “bene” o “male”
a tutti nella stessa misura.
L.: E la cioccolata, la
nutella? E’ vero che oltre al piacere fisico esse creano anche un effetto
psicologico? P.: Il cioccolato contiene una serie di sostanze che
favoriscono la secrezione di endorfine o che agiscono direttamente sulla psiche
e i suoi centri del benessere: agenti come il salsolinolo (attraverso l’azione
della dopamina), l’etanolamina, il
triptofano, possono addirittura stimolare attacchi compulsivi simili a quelli
delle persone che hanno una dipendenza verso le droghe, il gioco, il sesso e
così via. Un po' come tutti quei cibi che vengono definiti nervini: il tè, il
caffè…
L.: Il caffè fa male ? P.: Il caffè di
per sé non fa male. Bisogna tornare al discorso della quantità. Bere troppi
caffè fa male, specialmente nelle persone non abituate a farlo e che quindi non
hanno acquisito la giusta capacità di metabolizzare quel prodotto. Ma questo
vale anche per il vino, ad esempio. Tornando all'aspetto psicologico di cui mi
chiedeva prima, il nostro sistema nervoso centrale, oltre ai compiti noti,
svolge anche un ruolo di regolatore del sistema immunitario e ormonale, come
possiamo constatare vedendo le persone sotto stress che si ammalano più
frequentemente. Il caso dell'herpes è quello più conosciuto ma addirittura i
tumori si possono probabilmente presentare nei periodi di situazioni di stress
o malnutrizione.
L.: Questo confermerebbe
la convinzione che noi i tumori tante volte ce li cerchiamo? P.: Noi
quotidianamente duplichiamo il nostro DNA in un modo incredibile, di cui non ci
rendiamo conto. Le nostre cellule sono sempre nuove ed ereditano le
caratteristiche di quelle che le precedevano.
L.: Quindi è vero il
detto che noi siamo quel che mangiamo? P.: Certo!
L.: Ma se le nostre
cellule sono sempre nuove, perché invecchiamo? Ho detto una banalità? P.: Sì, perché le
cellule che si riproducono si sono modificate nel loro DNA e noi le ricostruiamo
da quel momento in poi. In
parole povere l’invecchiamento cellulare è la conseguenza del fatto che ogni
cellula “nuova” si porta dietro i difetti acquisiti (mutazioni) dalla sua
progenitrice. Paradossalmente, essere “quel che mangiamo” comporta che la
qualità del cibo che ci nutre può condizionare sia quella dello sviluppo sia
quella del mantenimento delle cellule sane. Teniamo presente che
l’invecchiamento è dovuto al manifestarsi dell’aumento degli errori nelle
mutazioni delle singole cellule che, per quanto controllati dall’organismo,
ogni tanto sfuggono al controllo. Questo
fenomeno determina , con l’età, la maggiore predisposizione alle malattie,
dovuta anche ad un sistema immunitario
sempre più difettoso. La nostra psiche può condizionare in buona parte questo
processo, attraverso il sistema nervoso e quello ormonale; di conseguenza una
mente “malata”, o perché stressata o perché sottoposta a mille stimoli, non
tiene abbastanza sotto controllo i sistemi correttori che quindi consentono più
errori nella riproduzione delle stesse cellule. Un esempio eclatante è quello
delle coppie vissute bene insieme tutta una vita nelle quali, alla scomparsa
del compagno, l’altro rapidamente deperisce fino a seguirlo nella fine.
Altrettanto può avvenire con un trauma esterno: mia nonna stessa, dopo
un’introduzione di ladri in casa con lei presente, scivolò in una débâcle e
successivamente in una demenza senile che la portarono a morire dopo tre anni.
L.: Questo conferma che
la psicologia è fondamentale nelle malattie? P.: Più che altro
deve spingere noi medici a ricordare che davanti si ha una persona e non una
malattia.
L.: Molto bella questa
sua considerazione. P.: Guardi,
specialmente per me che sono nutrizionista, quest’attenzione è fondamentale.
Convincere una persona a fare una dieta è un’operazione nettamente più delicata
che prescrivere una pillola. L’alimentazione non è solo nutrimento ma piacere,
convivialità, socialità, gratificazione, motivo di uscita o di conquista; determinare
un paziente, e quindi una persona, a rinunce gravi come quelle del pane e della
pasta per un celiaco, non è facile.
L.: Immagino che al di là
dell’esperienza del medico a suggerire o meno determinate imposizioni al
paziente, non tutti abbiano le stesse capacità personali di reagire e quindi
accettare nuove regole… P.: Guardi, ho un
paziente che, per rispondere alla sua ipotesi, campò benissimo e con allegria
dopo aver avuto un tumore alla prostata, un tumore alla vescica e un tumore
renale nell’arco di dieci anni.
L.: Perché c’è gente
che supera i tumori e altra no? P.: Beh, le cose
per fortuna sono cambiate molto negli ultimi trent’anni. I pilastri della cura
del cancro sono la prevenzione e la diagnosi precoce e sono state queste a
svilupparsi negli ultimi anni. Superata la crisi, però, torna a contare molto
la psiche e questo vale per tutte le malattie. Anche nella cura di una
polmonite l’antibiotico aiuta ma solo in parte, perché è il proprio sistema
immunitario ad avere la responsabilità di combattere e quello dipende in buona
parte dalle risorse personali. Come dimostrano i malati di AIDS che,
specialmente all’inizio, morivano di infezioni perché il loro sistema
immunitario era devastato e non c’era antibiotico che tenesse.
L.: Volevo tornare un
attimo alla riproduzione delle cellule: non si potrebbe agire su queste
mutazioni per combattere malattie e invecchiamento? P.: E’
esattamente quello che si sta facendo con le cellule staminali. Queste sono
cellule madri, prive delle mutazioni negative delle cellule riprodotte. A
cominciare da quelle presenti nel cordone ombelicale al parto, che si sta
tentando di conservare nel tempo: con quelle cellule un paziente che si ammali
a cinquant’anni può ancora disporre delle sue cellule sane, conservate prima
della degenerazione, che avvieranno quindi nuove riproduzioni “sane”. E’ a
questo che si dovrebbe arrivare in futuro…
L.: E oggi? A che punto è
la scienza, secondo lei? Ci sarà un momento di arrivo, in cui tutto quello che
si potrà fare sarà stato fatto? Le potenzialità della scienza, insomma, sono
finite o sono infinite? P.: Infinite!
L.: Non è un’affermazione
presuntuosa? Magari fra duecento anni i saggi di allora potrebbero smentirla
affermando che di più non si può! P.: Al contrario!
Ammettere possibilità infinite è il riconoscimento della nostra ignoranza
attuale. E quello che me lo fa credere è proprio l’enorme sviluppo delle
conoscenze avvenuto negli ultimi anni, che ci fanno definire preistoriche
quelle che si avevano appena poche decine di anni fa. Questo, infatti, non mi
fa affermare che siamo arrivati a sapere tutto, al contrario mi fa pensare che
ce ne possano essere altrettante di più!
L.: Torno un attimo alla
sua materia. In Italia il livello di conoscenza e cura per le malattie
gastroenterologiche è adeguato? P.: Sì! Siamo
molto aggiornati e il livello dell’Italia è competitivo. Il problema italiano,
come sappiamo, è la possibilità economica di fare ricerca, che è quella che è.
Il ricercatore italiano deve distogliere l’attenzione e molto del proprio tempo
sia per cose banali, come le pile del telecomando del proiettore che deve
comprare da solo, sia per le attenzioni verso la politica che da un giorno
all’altro può spezzare il suo delicato lavoro. Tant’è vero che gli italiani che
vanno all’estero non dimostrano certo lacune di capacità… Voglio aggiungere, per finire, che nel campo
nutrizionale mio specifico, invece, la formazione professionale è scadente,
perché negli ultimi vent’anni la scienza della nutrizione è cresciuta molto di
più rispetto ad altre branche. Io faccio parte del consiglio direttivo della
FeSIN che è la federazione delle società di nutrizione e stiamo facendo molta
fatica per l’aggiornamento dei medici. Inoltre, oggi l’alimentazione è di moda:
chi fa il vegetariano, chi fa il vegano e chi si fa seguire con mille proposte
dietologiche dietro cui non vi è adeguata conoscenza scientifica, anzi…
L.: Ecco, quindi queste
nuove diete che sentiamo diffondersi, alcune a mio parere legate a motivi che
non hanno origine nella salute ma in alcuni principi di moda, come quello animalista
che spinge gente che amava la carne a smettere completamente di mangiarla, sono
sbagliate? P.: Secondo me
nella dieta ci vuole anche la carne. Che poi siamo abituati (se non
vegetariani) a mangiarne troppa è vero. La carne rossa va mangiata una o due
volte a settimana. I vegetariani però non è che rischino particolari carenze: devono solo stare attenti
ad alcuni possibili deficit nutrizionali, per esempio della vitamina B12,
mentre a rischiare molto sono i vegani, cioè i vegetariani che non mangiano
neanche latte, uova e formaggi.
L.: Ma il latte fa
malissimo come dicono loro? P.: Questo secondo
me è un malinteso culturale che nasce dal fatto che, siccome è frequente
l’intolleranza al lattosio, che inoltre aumenta con il passare degli anni, è frequente che chi soffre di questa
intolleranza abbia dei disturbi bevendo il latte ma non è che il latte faccia
male… E’ inoltre sbagliata l’altra moda di accomunare i comportamenti animali
con quelli delle persone, che sono completamente diverse…
L.: Cambiamo argomento?
So che lei ha un’altra passione… P.: E’ vero! Devo
dire che nell’estate del 2003 mi è preso il fuoco sacro della voglia di…
scrivere.
L.: Scrivere di
medicina? P.: No! Ho
scritto due romanzi di narrativa. Il primo, che si intitola “Fortunatamente tutto passa”, è la storia
d’amore senza tempo vissuta in un paese di provincia dove esistono tanti
condizionamenti che possono produrre pressioni a cui il protagonista si
ribellerà, dimostrando quanto è distorta la visione di quella gente; il secondo
è più articolato, si intitola “Prima o
poi” e si svolge nell’arco di trent’anni fra Italia e Uruguay, dove ho
vissuto per dieci anni. E’ un po’ autobiografico…
L.: La domanda a questo punto
sorge spontanea: Lei si sente più medico o scrittore? P.: No, guardi,
ho cominciato a scrivere per un bisogno mio ma non ho mai pensato di fare
davvero lo scrittore. Considero la cosa un hobby che mi ha appagato
indipendentemente dai risultati oggettivi raggiunti in quel campo.
Il prof. Piretta ci
lascia un po’ più tranquilli di prima. La sua sicurezza nel rispondere a
problematiche serie come quelle sui tumori deve aver confortato non pochi dei
suoi pazienti. E l’aspetto umano, di cui ci ha illustrato l’importanza, è
quello che emerge fortemente conoscendolo. Lo lasciamo a chi ha bisogno di lui
consapevoli che, se dovesse capitare a noi, in lui troveremmo, oltre alla
grande competenza, certamente quel lato umano che a volte sembrano non possedere
tanti suoi colleghi…
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In contrasto con il futurismo della scienza illustrata dal Prof. Piretta, vi proponiamo un articolo sulla preistoria delle operazioni chirurgiche, tratto da "Realtà Nuova"
BILL ROTH
la nascita della chirurgia viscerale
di Renato Andrich
Siamo
nel 1800. In tutta la sua storia la chirurgia si è occupata soprattutto di curare
traumi ortopedici (fratture, lussazioni, ecc..), ferite, ernie, ascessi. Sono state
effettuati anche sporadici e audaci interventi per asportare calcoli vescicali e svuotare ematomi meningei.
Ma intervenire su organi addominali, all’interno della cavità peritoneale era rimasto
un grande tabù. Ogni tentativo
si concludeva
quasi inevitabilmente con la morte del paziente per una gravissima sindrome che
oggi sappiamo dipendere dalla peritonite che conseguiva a quei tentativi, per inquinamento
settico della cavità peritoneale. Poi, nella
prima metà dell’otto- cento si verificarono due scoperte che dettero una
spinta formidabile alla medicina mo- derna, e in particolare alla chirurgia. Due
grandissimi scienziati, Sommelweiss e Lister, studiando l’elevata mortalità delle pazienti che dopo il
parto si ammalavano di febbre puerperale, scoprirono che questa diminuiva drasticamente
se medici e infermiere praticavano un’accurata pulizia delle mani, degli strumenti
e della biancheria con sostanze come l’acido fenico o altre simili. Anche senza
conoscere l’esistenza dei batteri (scoperti poco dopo da Pasteur), tale pratica
si diffuse, se pur lentamente e contro lo scetticismo, con risultati miracolosi,
a tutto l’ambiente chirurgico. Il 6 Novembre 1846 il Boston Medical and Surgical Journal pubblicò un articolo: “Insensibility
during surgical operations produced by inala-
tion”. Nasceva l’anestesia, praticata con l’etere, per merito di un dentista, William Morton. Un mese prima, al Massachusset
General Hospital era stato eseguito con successo il primo intervento in anestesia
per asportare un tumore vascolare del collo
dal chirurgo J.C. Warren, assistito da Morton. Warren, colpito dall’efficacia della
procedura esclamò: “signori, questo non è un imbroglio!”. L’impiego diffuso del’antisepsi,
pur se ancora in assenza della cono- scenza degli antibiotici, e l’uso dell’anestesia
aprivano nuovi orizzonti alla chirurgia, e i pionieri si stavano per affacciare
alla platea. Uno tra i più grandi fu indubbiamente Christian Albert Theodor Billroth,
nato in Croazia nel 1829, Direttore della Clinica Chirurgica dell’Uni- versità di
Zurigo prima, e di Vienna poi, sino alla sua morte nel 1894. Durante gli studi uni-
versitari non si era distinto, preferendo occuparsi di musica, a cui si dedicava
con passione e successo. Fu amico fraterno di Brahms, che gli dedicò anche uno
dei suoi quartetti per archi (Brahms opera 51). Ma in seguito fu interamente posseduto
dalla passione per l’ana- tomia e per la chirurgia. Si dedicò a tentare nuove strade per curare malattie
fino allora mor- tali, come i tumori endoaddominali. Effettuò molte sperimentazioni
sugli animali, finchè, nel 1881, spinto dalla compassione per una giovane donna
affetta da una voluminosa neoplasia gastrica, tentò quello che non era mai stato
osato: impiegando l’antisepsi e l’anestesia operò la donna, asportando più di metà
dello stomaco con la neoplasia, e concluse l’operazione risuturando il moncone
gastrico residuo al duodeno. L’intervento durò circa un’ora e mezza e la paziente,
tra lo stupore generale, guarì dall’operazione e fu in grado di rialimentarsi
normalmente. Questo tipo di intervento, con la ricostruzione della continuità del
tubo digerente con l’abboccamento diretto dello stomaco al duodeno è ancora oggi
praticato con la denominazione di intervento di Billroth 1 o B1, praticamente
immutato da 133 anni. In seguito Billroth, trovandosi di fronte ad un paziente in
cui una più voluminosa neoplasia invadeva maggiormente lo stomaco anche in prossimità
del duodeno, ideò e praticò un intervento differente: asportò un maggior volume
di stomaco, chiuse il duodeno e ripristinò la continuità del canale digerente collegando
lo stomaco all’intestino un poco più in basso. Questo secondo intervento, è anch’esso ancora praticato e conosciuto con il nome di intervento secondo Billroth 2 o B2.
Ovviamente la chirurgia moderna ha modificato le indicazioni a questi interventi.
Per le neoplasie gastriche oggi si praticano interventi più radicali, che comprendono
anche i linfonodi tributari dello stomaco, mentre le resezioni gastriche secondo
Billroth (1e 2) sono riservate a patologie benigne, come le ulcere peptiche complicate.
Ma è stupefacente osservare ancor oggi la
piena validità delle procedure chirurgiche
messe a punto da Billroth tanti anni fa. Nel prosieguo della sua carriera aprì anche altre frontiere chirurgiche.
Per primo praticò l’asportazione dell’esofago e della laringe per neoplasie!.
Quel periodo eroico della medicina e della chirurgia è stato immortalato da un
noto pittore, Adelbert Seligmann, in un celebre quadro in mostra presso la Galleria
Austriaca Belvedere di Vienna: “la lezione di Billroth” del 1890. Il chirurgo, con
la barba bianca, al centro del dipinto, austero e carismatico, mentre opera un paziente,
è circondato da giovani allievi che pendono dalle sue labbra. Dalle note del pittore
sappiamo che l’intervento eseguito era una neurotomia per una nevralgia del trigemino.
Oggi siamo colpiti dalle mani senza guanti dei chirurghi e dal pubblico in borghese,
ma lì si faceva la storia della moderna chirurgia.