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Conosciamo la gastroenterologia!

Intervista con il Prof. Luca Piretta

di Maurizio Oliviero

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Libernews: Buongiorno professore! Entriamo subito nella sua materia: la gastroenterologia quali parti del corpo interessa?

Piretta: La gastroenterologia interessa, dalla bocca all'ano, tutto l'apparato digerente, compreso il fegato ed il pancreas. All’interno di tutto questo insieme si possano presentare malattie lievi come la gastrite o gravi come il tumore del colon, che è una delle principali cause di morte nei paesi occidentali.

L.: Qual è la sua particolarità rispetto ad altre zone del nostro corpo?
P.: Uno degli aspetti più interessanti degli ultimi tempi in campo gastroenterologico è il riconoscimento dell'importanza della flora batterica intestinale che si chiama microbiota e comprende tutti i batteri che popolano il nostro intestino. Forse è curioso sapere che proprio nel nostro intestino ci sono dieci volte più batteri di tutte le nostre cellule umane e la somma del loro genoma, ovvero del loro patrimonio genetico, supera di sessanta volte il nostro; quindi esiste un tutt'uno fra noi e i batteri che è difficile distinguere nelle separate identità visto che senza quei batteri noi non potremmo vivere.

L.: Quindi lei sta sottolineando una distinzione tra i batteri presenti nell’intestino e quelli del resto del corpo.
P.: Lo so, questo è un aspetto molto curioso. Di solito noi consideriamo i batteri tutti nemici ma nel nostro organismo risiede una quantità immensa di batteri che hanno con noi un rapporto di mutua convivenza, creando benefici alla nostra persona, tanto che si ritiene che un alterato microbiota possa essere all'origine di alcune malattie, in particolare quelle croniche. Questa è una specie di rivoluzione culturale che sta avvenendo nella nostra specialità.

L.: Si dice che le malattie dello stomaco e dintorni possano avere origini nervose. Cosa c’è di vero in questo?
P.: Bisogna premettere che in questo apparato esistono  malattie acute e malattie croniche;  la più frequente fra quelle croniche è una malattia che viene definita funzionale ed è la sindrome dell'intestino irritabile, mal chiamata colite. Questo è un disturbo la cui causa precisa non si conosce ma è legato ad una disfunzione del sistema nervoso enterico ovvero della pancia, dove risiede una sorta di vero e proprio secondo cervello, collegato a quello nella testa ma con percezioni e stimolazioni indipendenti.


L.: Per indipendente immagino qualcosa che ha potere decisionale autonomo. E’ così?
P.: Sì! Per farle un esempio, l'arrivo di un cibo troppo caldo o troppo freddo può farlo reagire generando una scarica di diarrea.

L.: E questa azione del “secondo cervello” è dovuta a una sorta di scelta protettiva o è una semplice reazione?
P.: Può funzionare in entrambi i modi:  nel caso di un arrivo di batteri può andare in diarrea decidendo di eliminarli, nell'altro di una temperatura troppo alta può farlo per autodifesa.

L.: Volevo chiederle qualcosa che potrebbe chiarire un dubbio atavico: è più dannoso mangiare tanto e bene oppure poco e male?
P.: Questa domanda mi piace molto! È scontato dire che fa male mangiare male. Secondo me però forse è peggio mangiare tanto e bene che poco e male.

L.: Allora ho fatto bene a chiederlo perché io pensavo il contrario!
P.: Quando parliamo di educazione alimentare e questo vale soprattutto per i giovani ("non mangiare patatine; non bere coca cola!"), il vietare può creare danni per l'aspetto psicologico, per il senso di accettazione sociale, per la convivenza e per la necessità di trasgredire che fa parte della natura.

L.: Questo vale anche per i giovani? Noi pensavamo che un giovane, avendo molte più distrazioni, risentisse meno dei sacrifici alimentari così duri da  rispettare in età avanzata...
P.: Un ragazzo tende più facilmente ad agire d'istinto e spesso non ha la consapevolezza di ciò che fa bene o fa male; insistere, in quel caso col proibire un alimento, non ha senso, anzi proibire un McDonald's saltuario potrebbe avere effetti negativi di altro tipo. Non bisogna però eccedere neanche con alimenti che si ritiene siano salutari perché, come diceva Paracelso, è la dose che fa il veleno e anche un “buon” alimento, se consumato in eccesso, può diventare nocivo. Inoltre il rapporto con gli alimenti rimane una condizione molto soggettiva e non fanno “bene”  o “male”  a tutti nella stessa misura.

L.: E la cioccolata, la nutella? E’ vero che oltre al piacere fisico esse creano anche un effetto psicologico?
P.: Il cioccolato contiene una serie di sostanze che favoriscono la secrezione di endorfine o che agiscono direttamente sulla psiche e i suoi centri del benessere: agenti come il salsolinolo (attraverso l’azione della dopamina), l’etanolamina,  il triptofano, possono addirittura stimolare attacchi compulsivi simili a quelli delle persone che hanno una dipendenza verso le droghe, il gioco, il sesso e così via. Un po' come tutti quei cibi che vengono definiti nervini: il tè, il caffè…

L.: Il caffè fa male ?
P.: Il caffè di per sé non fa male. Bisogna tornare al discorso della quantità. Bere troppi caffè fa male, specialmente nelle persone non abituate a farlo e che quindi non hanno acquisito la giusta capacità di metabolizzare quel prodotto. Ma questo vale anche per il vino, ad esempio. Tornando all'aspetto psicologico di cui mi chiedeva prima, il nostro sistema nervoso centrale, oltre ai compiti noti, svolge anche un ruolo di regolatore del sistema immunitario e ormonale, come possiamo constatare vedendo le persone sotto stress che si ammalano più frequentemente. Il caso dell'herpes è quello più conosciuto ma addirittura i tumori si possono probabilmente presentare nei periodi di situazioni di stress o malnutrizione.

L.: Questo confermerebbe la convinzione che noi i tumori tante volte ce li cerchiamo?
P.: Noi quotidianamente duplichiamo il nostro DNA in un modo incredibile, di cui non ci rendiamo conto. Le nostre cellule sono sempre nuove ed ereditano le caratteristiche di quelle che le precedevano.

L.: Quindi è vero il detto che noi siamo quel che mangiamo?
P.: Certo!

L.: Ma se le nostre cellule sono sempre nuove, perché invecchiamo? Ho detto una banalità?
P.: Sì, perché le cellule che si riproducono si sono modificate nel loro DNA e noi le ricostruiamo da quel momento in poi. In parole povere l’invecchiamento cellulare è la conseguenza del fatto che ogni cellula “nuova” si porta dietro i difetti acquisiti (mutazioni) dalla sua progenitrice. Paradossalmente, essere “quel che mangiamo” comporta che la qualità del cibo che ci nutre può condizionare sia quella dello sviluppo sia quella del mantenimento delle cellule sane. Teniamo presente che l’invecchiamento è dovuto al manifestarsi dell’aumento degli errori nelle mutazioni delle singole cellule che, per quanto controllati dall’organismo, ogni tanto sfuggono al controllo. Questo fenomeno determina , con l’età, la maggiore predisposizione alle malattie, dovuta anche ad un sistema immunitario sempre più difettoso. La nostra psiche può condizionare in buona parte questo processo, attraverso il sistema nervoso e quello ormonale; di conseguenza una mente “malata”, o perché stressata o perché sottoposta a mille stimoli, non tiene abbastanza sotto controllo i sistemi correttori che quindi consentono più errori nella riproduzione delle stesse cellule. Un esempio eclatante è quello delle coppie vissute bene insieme tutta una vita nelle quali, alla scomparsa del compagno, l’altro rapidamente deperisce fino a seguirlo nella fine. Altrettanto può avvenire con un trauma esterno: mia nonna stessa, dopo un’introduzione di ladri in casa con lei presente, scivolò in una débâcle e successivamente in una demenza senile che la portarono a morire  dopo tre anni.

L.: Questo conferma che la psicologia è fondamentale nelle malattie?
P.: Più che altro deve spingere noi medici a ricordare che davanti si ha una persona e non una malattia.

L.: Molto bella questa sua considerazione.
P.: Guardi, specialmente per me che sono nutrizionista, quest’attenzione è fondamentale. Convincere una persona a fare una dieta è un’operazione nettamente più delicata che prescrivere una pillola. L’alimentazione non è solo nutrimento ma piacere, convivialità, socialità, gratificazione, motivo di uscita o di conquista; determinare un paziente, e quindi una persona, a rinunce gravi come quelle del pane e della pasta per un celiaco, non è facile.

L.: Immagino che al di là dell’esperienza del medico a suggerire o meno determinate imposizioni al paziente, non tutti abbiano le stesse capacità personali di reagire e quindi accettare nuove regole…
P.: Guardi, ho un paziente che, per rispondere alla sua ipotesi, campò benissimo e con allegria dopo aver avuto un tumore alla prostata, un tumore alla vescica e un tumore renale nell’arco di dieci anni.

L.: Perché c’è gente che supera i tumori e altra no?
P.: Beh, le cose per fortuna sono cambiate molto negli ultimi trent’anni. I pilastri della cura del cancro sono la prevenzione e la diagnosi precoce e sono state queste a svilupparsi negli ultimi anni. Superata la crisi, però, torna a contare molto la psiche e questo vale per tutte le malattie. Anche nella cura di una polmonite l’antibiotico aiuta ma solo in parte, perché è il proprio sistema immunitario ad avere la responsabilità di combattere e quello dipende in buona parte dalle risorse personali. Come dimostrano i malati di AIDS che, specialmente all’inizio, morivano di infezioni perché il loro sistema immunitario era devastato e non c’era antibiotico che tenesse.

L.: Volevo tornare un attimo alla riproduzione delle cellule: non si potrebbe agire su queste mutazioni per combattere malattie e invecchiamento?
P.: E’ esattamente quello che si sta facendo con le cellule staminali. Queste sono cellule madri, prive delle mutazioni negative delle cellule riprodotte. A cominciare da quelle presenti nel cordone ombelicale al parto, che si sta tentando di conservare nel tempo: con quelle cellule un paziente che si ammali a cinquant’anni può ancora disporre delle sue cellule sane, conservate prima della degenerazione, che avvieranno quindi nuove riproduzioni “sane”. E’ a questo che si dovrebbe arrivare in futuro…

L.: E oggi? A che punto è la scienza, secondo lei? Ci sarà un momento di arrivo, in cui tutto quello che si potrà fare sarà stato fatto? Le potenzialità della scienza, insomma, sono finite o sono infinite?
P.: Infinite!

L.: Non è un’affermazione presuntuosa? Magari fra duecento anni i saggi di allora potrebbero smentirla affermando che di più non si può!
P.: Al contrario! Ammettere possibilità infinite è il riconoscimento della nostra ignoranza attuale. E quello che me lo fa credere è proprio l’enorme sviluppo delle conoscenze avvenuto negli ultimi anni, che ci fanno definire preistoriche quelle che si avevano appena poche decine di anni fa. Questo, infatti, non mi fa affermare che siamo arrivati a sapere tutto, al contrario mi fa pensare che ce ne possano essere altrettante di più!

L.: Torno un attimo alla sua materia. In Italia il livello di conoscenza e cura per le malattie gastroenterologiche è adeguato?
P.: Sì! Siamo molto aggiornati e il livello dell’Italia è competitivo. Il problema italiano, come sappiamo, è la possibilità economica di fare ricerca, che è quella che è. Il ricercatore italiano deve distogliere l’attenzione e molto del proprio tempo sia per cose banali, come le pile del telecomando del proiettore che deve comprare da solo, sia per le attenzioni verso la politica che da un giorno all’altro può spezzare il suo delicato lavoro. Tant’è vero che gli italiani che vanno all’estero non dimostrano certo lacune di capacità…  Voglio aggiungere, per finire, che nel campo nutrizionale mio specifico, invece, la formazione professionale è scadente, perché negli ultimi vent’anni la scienza della nutrizione è cresciuta molto di più rispetto ad altre branche. Io faccio parte del consiglio direttivo della FeSIN che è la federazione delle società di nutrizione e stiamo facendo molta fatica per l’aggiornamento dei medici. Inoltre, oggi l’alimentazione è di moda: chi fa il vegetariano, chi fa il vegano e chi si fa seguire con mille proposte dietologiche dietro cui non vi è adeguata conoscenza scientifica, anzi…

L.: Ecco, quindi queste nuove diete che sentiamo diffondersi, alcune a mio parere legate a motivi che non hanno origine nella salute ma in alcuni principi di moda, come quello animalista che spinge gente che amava la carne a smettere completamente di mangiarla, sono sbagliate?
P.: Secondo me nella dieta ci vuole anche la carne. Che poi siamo abituati (se non vegetariani) a mangiarne troppa è vero. La carne rossa va mangiata una o due volte a settimana. I vegetariani però non è che rischino particolari carenze: devono solo stare attenti ad alcuni possibili deficit nutrizionali, per esempio della vitamina B12, mentre a rischiare molto sono i vegani, cioè i vegetariani che non mangiano neanche latte, uova e formaggi.

L.: Ma il latte fa malissimo come dicono loro?
P.: Questo secondo me è un malinteso culturale che nasce dal fatto che, siccome è frequente l’intolleranza al lattosio, che inoltre aumenta con il passare degli anni, è frequente che chi soffre di questa intolleranza abbia dei disturbi bevendo il latte ma non è che il latte faccia male… E’ inoltre sbagliata l’altra moda di accomunare i comportamenti animali con quelli delle persone, che sono completamente diverse…

L.: Cambiamo argomento? So che lei ha un’altra passione…
P.: E’ vero! Devo dire che nell’estate del 2003 mi è preso il fuoco sacro della voglia di… scrivere.

L.: Scrivere di medicina?
P.: No! Ho scritto due romanzi di narrativa. Il primo, che si intitola “Fortunatamente tutto passa”, è la storia d’amore senza tempo vissuta in un paese di provincia dove esistono tanti condizionamenti che possono produrre pressioni a cui il protagonista si ribellerà, dimostrando quanto è distorta la visione di quella gente; il secondo è più articolato, si intitola “Prima o poi” e si svolge nell’arco di trent’anni fra Italia e Uruguay, dove ho vissuto per dieci anni. E’ un po’ autobiografico…

L.: La domanda a questo punto sorge spontanea: Lei si sente più medico o scrittore?
P.: No, guardi, ho cominciato a scrivere per un bisogno mio ma non ho mai pensato di fare davvero lo scrittore. Considero la cosa un hobby che mi ha appagato indipendentemente dai risultati oggettivi raggiunti in quel campo.

Il prof. Piretta ci lascia un po’ più tranquilli di prima. La sua sicurezza nel rispondere a problematiche serie come quelle sui tumori deve aver confortato non pochi dei suoi pazienti. E l’aspetto umano, di cui ci ha illustrato l’importanza, è quello che emerge fortemente conoscendolo. Lo lasciamo a chi ha bisogno di lui consapevoli che, se dovesse capitare a noi, in lui troveremmo, oltre alla grande competenza, certamente quel lato umano che a volte sembrano non possedere tanti suoi colleghi…





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Siamo nel 1800. In tutta la sua storia la chirurgia si è occupata soprattutto di curare traumi ortopedici (fratture, lussazioni, ecc..), ferite, ernie, ascessi. Sono state effettuati anche sporadici e audaci interventi per asportare  calcoli vescicali e svuotare ematomi meningei. Ma intervenire su organi addominali, all’interno della cavità peritoneale era rimasto un grande tabù. Ogni tentativo si concludeva quasi inevitabilmente con la morte del paziente per una gravissima sindrome che oggi sappiamo dipendere dalla peritonite che conseguiva a quei tentativi, per inquinamento settico della cavità peritoneale.  Poi, nella prima metà dell’otto- cento si verificarono due scoperte che dettero una spinta formidabile alla medicina mo- derna, e in particolare alla chirurgia. Due grandissimi scienziati, Sommelweiss e Lister, studiando l’elevata mortalità delle pazienti che dopo il parto si ammalavano di febbre puerperale, scoprirono che questa diminuiva drasticamente se medici e infermiere praticavano un’accurata pulizia delle mani, degli strumenti e della biancheria con sostanze come l’acido fenico o altre simili. Anche senza conoscere l’esistenza dei batteri (scoperti poco dopo da Pasteur), tale pratica si diffuse, se pur lentamente e contro lo scetticismo, con risultati miracolosi, a tutto l’ambiente chirurgico. Il 6 Novembre 1846 il Boston Medical and Surgical Journal pubblicò un articolo: “Insensibility during surgical operations produced  by inala- tion”. Nasceva l’anestesia, praticata con l’etere, per merito di un dentista,  William Morton. Un mese prima, al Massachusset General Hospital era stato eseguito con successo il primo intervento in anestesia per asportare un tumore  vascolare del collo dal chirurgo J.C. Warren, assistito da Morton. Warren, colpito dall’efficacia della procedura esclamò: “signori, questo non è un imbroglio!”. L’impiego diffuso del’antisepsi, pur se ancora in assenza della cono- scenza degli antibiotici, e l’uso dell’anestesia aprivano nuovi orizzonti alla chirurgia, e i pionieri si stavano per affacciare alla platea. Uno tra i più grandi fu indubbiamente Christian Albert Theodor Billroth, nato in Croazia nel 1829, Direttore della Clinica Chirurgica dell’Uni- versità di Zurigo prima, e di Vienna poi, sino alla sua morte nel 1894. Durante gli studi uni- versitari non si era distinto, preferendo occuparsi di musica, a cui si dedicava con passione e successo. Fu amico fraterno di Brahms, che gli dedicò anche uno dei suoi quartetti per archi (Brahms opera 51). Ma in seguito fu interamente posseduto dalla passione per l’ana- tomia e per la chirurgia.  Si dedicò a tentare nuove strade per curare malattie fino allora mor- tali, come i tumori endoaddominali. Effettuò molte sperimentazioni sugli animali, finchè, nel 1881, spinto dalla compassione per una giovane donna affetta da una voluminosa neoplasia gastrica, tentò quello che non era mai stato osato: impiegando l’antisepsi e l’anestesia operò la donna, asportando più di metà dello stomaco con la neoplasia, e concluse l’operazione risuturando il moncone gastrico residuo al duodeno. L’intervento durò circa un’ora e mezza e la paziente, tra lo stupore generale, guarì dall’operazione e fu in grado di rialimentarsi normalmente. Questo tipo di intervento, con la ricostruzione della continuità del tubo digerente con l’abboccamento diretto dello stomaco al duodeno è ancora oggi praticato con la denominazione di intervento di Billroth 1 o B1, praticamente immutato da 133 anni. In seguito Billroth, trovandosi di fronte ad un paziente in cui una più voluminosa neoplasia invadeva maggiormente lo stomaco anche in prossimità del duodeno, ideò e praticò un intervento differente: asportò un maggior volume di stomaco, chiuse il duodeno e ripristinò la continuità del canale digerente collegando lo stomaco all’intestino un poco più in basso. Questo secondo intervento, è anch’esso ancora praticato e conosciuto con il nome di intervento secondo Billroth 2 o B2. Ovviamente la chirurgia moderna ha modificato le indicazioni a questi interventi. Per le neoplasie gastriche oggi si praticano interventi più radicali, che comprendono anche i linfonodi tributari dello stomaco, mentre le resezioni gastriche secondo Billroth (1e 2) sono riservate a patologie benigne, come le ulcere peptiche complicate.  Ma è stupefacente osservare ancor oggi la piena validità delle procedure chirurgiche messe a punto da Billroth tanti anni fa. Nel prosieguo  della sua carriera aprì anche altre frontiere chirurgiche. Per primo praticò l’asportazione dell’esofago e della laringe per neoplasie!. Quel periodo eroico della medicina e della chirurgia è stato immortalato da un noto pittore, Adelbert Seligmann, in un celebre quadro in mostra presso la Galleria Austriaca Belvedere di Vienna: “la lezione di Billroth” del 1890. Il chirurgo, con la barba bianca, al centro del dipinto, austero e carismatico, mentre opera un paziente, è circondato da giovani allievi che pendono dalle sue labbra. Dalle note del pittore sappiamo che l’intervento eseguito era una neurotomia per una nevralgia del trigemino. Oggi siamo colpiti dalle mani senza guanti dei chirurghi e dal pubblico in borghese, ma lì si faceva la storia della moderna chirurgia.


(da Realtà Nuova)

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