Al Vittoriano di Roma 90 opere dell'artista che scoprì la malinconia delle periferie
Mario Sironi: il pittore-architetto
Le sue opere trasudano dramma e tragedia, le sue immagini sono permeate di elementi architettonici. Siamo parlando di Mario Sironi, il pittore di cui Picasso disse: “Avete un grande artista, forse il più grande del momento e non ve ne rendete conto”, un maestro del Novecento italiano penalizzato, in vita e dopo la morte, dalla sua militanza fascista. A lui il Complesso del Vittoriano ha dedicato la mostra “Mario Sironi. 1885-1961”*, parte integrante di quella riflessione sul Ventesimo secolo, promossa dal Vittoriano a partire dal 2012 con l’esposizione di Guttuso, continuata nel 2013 con la mostra dedicata a Cézanne e ai pittori italiani da lui ispirati. E che proseguirà nel 2015 con Giorgio Morandi. Perché Sironi fu sì sostenitore del fascismo, ma, come scrive in un saggio del catalogo Elena Pontiggia, curatrice della mostra (con la collaborazione dell’Archivio Sironi di Romana Sironi): ”Questo artista è stato sì mussoliniano, ma parafrasando Vittorini, non ha mai suonato il piffero della rivoluzione fascista perché la sua arte, intrisa di dramma, era più funzionale alla verità che alla propaganda. Sironi, insomma, è stato il più tedesco dei pittori italiani e il più italiano dei pittori tedeschi”. La mostra espone circa 90 opere per una “personale” a Roma che mancava da vent’anni, partendo dagli esordi simbolisti e divisionisti, passando per futurismo e metafisica, fino alla grande pittura murale e agli ultimi cicli delle “Apocalissi”, raccontando così l’intera parabola creativa di questo grande maestro, segnato, in vita e anche dopo la morte, dalla sua scelta politica. Sironi, infatti, da qualcuno definito un “notissimo sconosciuto”, ha sempre pagato la sua passione politica, certamente lontana da ogni propaganda, ma comunque presente, che l’ha condannato a una sorta di limbo, oggetto di scarsi studi e altrettante poche esposizioni. Ma l’arte di Sironi, spiega la curatrice, sempre nel saggio di apertura del catalogo, è comunque “una lezione di tragedia. Ma c’è dell’altro. La pittura di Sironi è anche una lezione di grandezza. Le due cose combaciano nelle sue opere come le valve di una conchiglia. Tragedia, cioè drammaticità, tensione, espressionismo, romanticismo. Grandezza, cioè forza, equilibrio, solennità, classicità”. Il percorso espositivo parte con un approfondimento della fase giovanile dell’artista, l’iniziale momento simbolista prima dell’epoca futurista (rappresentata in mostra da “Il camion”) e poi metafisica (“La lampada”). Seguono gli anni Venti quando Sironi è tra i fondatori del Novecento italiano e dà l’avvio alla stagione novecentista e classica, durante la quale vede la luce uno dei suoi capolavori, “L’Architetto”, del 1922 - 1923, (esposto alla Biennale di Venezia nel 1924). A seguire la sua “crisi espressionista”, a cavallo tra gli anni Venti e Trenta (“Il pescatore”), e la successiva fase della pittura murale, sempre degli anni Trenta (“Il lavoratore”). Poi la neometafisica (“Eclisse”) e il ritorno al quadro degli anni Quaranta (“La penitente”), infine le opere del Dopoguerra e le “Apocalissi”, uno dei suoi ultimi cicli pittorici, quasi il testamento spirituale di Sironi. La mostra in corso al Vittoriano (da pochi giorni si è chiusa a Milano, a Palazzo Cusani, un’altra esposizione su Sironi incentrata sul cartone preparatorio della vetrata della Chiesa dell’Annunciata dell’Ospedale Niguarda Ca’ Granda) presenta quindi i risultati degli ultimi decenni di studi e del faticoso sforzo compiuto dalla nipote Romana nel sistematizzare l’immenso archivio dell’artista; in più, sono presenti alcuni dipinti di epoca giovanile, ispirati dal Simbolismo e dal movimento Liberty, che poi per tutto il resto della sua vita Sironi detestò. Opere dipinte da “una mano che non sembra neanche la sua”, dichiara la Pontiggia che, per questa mostra, è riuscita a ottenere il prestito di una serie di questi piccoli dipinti, tutti provenienti da raccolte private. Già da questo primo periodo di attività artistica traspare il profondo desiderio dell’artista di costruire, lo stesso impulso che caratterizzerà le sue opere fino alla sua morte, come in “La madre che cuce” (1905 – 1906), un’opera che, sebbene di ispirazione divisionista, presenta, spiega la curatrice, una pennellata senza interruzioni, espressione già allora di una volontà artistica che andava aldilà di ogni suggestione estetica. Nel 1913, un altro salto di qualità, con l’avvicinamento al Futurismo, complice l’amicizia con Boccioni, ma soprattutto è in questo periodo che appare in maniera definitiva la sua vocazione di pittore-architetto, per il quale “costruire è necessario”. Tutte le sue opere di quegli anni testimoniano questo processo che lo fa aderire al movimento di Marinetti, pur mantenendo il suo amore fortissimo per l’antico. Quello che lo attrae dei futuristi è il loro “dinamismo plastico”, da Sironi visto come modello espressivo ideale per la sua volontà di costruire. La macchina calata nel paesaggio urbano, chiarisce però la Pontiggia, “non è velocità, ma volume”come pure i massicci camion posti al centro delle strade. Questo suo modo di raffigurare la realtà lo conduce poi nel 1919 alla pittura metafisica con il già citato dipinto “La lampada” in cui Sironi costruisce una realtà che, invece di oltrepassare il dato fisico, “precipita dentro le cose” e mette al centro della scena un manichino particolarmente plastico e drammatico. A questo punto della sua storia si colloca il trasferimento da Roma a Milano, un momento molto difficile della sua vita, così bene espresso dalla desolazione delle sue periferie, paesaggi urbani proiettati contro cieli luminescenti, in cui bene viene espressa la durezza dell’esistenza. Un senso di tragicità mai disperato in cui le periferie ritratte, pur rappresentando bene la solitudine di chi ci viveva, sono però forme salde, in qualche maniera senza tempo. La stessa “eternità” che traspare dalle sue monumentali rappresentazioni di lavoratori, figure possenti e arcaiche, molto lontane dai criteri celebrativi dell’arte fascista, immagini di uomini capaci di creare nell’osservatore, con la loro fatica e i loro sforzi, un’idea di grande energia. E siamo così alla fase “monumentale” del percorso artistico di Sironi, ben rappresentato nella sala centrale del Museo del Vittoriano, con i cartoni preparatori per “L’Italia tra le Arti e le Scienze”, esempio importante di quella fase della vita dell’artista dedicata alla pittura murale, che Sironi abbraccia nella convinzione che dell’arte tutti debbano godere. Questo senso di spazialità sarà mantenuto anche nel dopoguerra, quando l’artista tornerà alla pittura su cavalletto inasprendo il suo mondo artistico con quel pessimismo che governerà le fasi finali della sua vita. Il risultato sarà il ciclo delle “Apocalissi”, dipinti in cui domina il senso dell’impotenza, con un solo fattore ancora prevalente: la spinta a costruire, non più però sotto la guida dell’uomo, ma piuttosto affidata alla Natura, a quelle montagne che da sole possono dare il senso dell’eterno. *Via San Pietro in Carcere (Fori Imperiali), fino all’8 febbraio 2015. Orario: dal lunedì al giovedì 9.30–19.30, venerdì e sabato 9.30–22.00, domenica 9.30–20.30. Ingresso: intero 12.00 euro, ridotto 9.00 euro. Info: 06/6780664 www.comunicareorganizzando.it. Prevendite: 06 32810811 – www.ticketone.it |
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Mario Sironi - "La lampada", 1919
olio su carta applicata su tela cm 96x78 Pinacoteca di Brera, Milano Mario Sironi - "Il lavoratore", 1936
olio e tempera su carta intelata cm 329x206 Collezione privata |