I marò Latorre e Girone colpevoli? Sì! (e no) . . .
di Maurizio Oliviero
La storia dei Marò è finalmente andata in pensione ma è interessante, anche a posteriori, addentrarsi con mente lucida nei meandri delle sue verità...
E’ il 15 febbraio del 2012. Sei
fucilieri del Reggimento San Marco della Marina Militare italiana si aggirano
sul ponte della petroliera Enrica Lexie. La nave si trova al largo della costa
del Kerala (India sud-occidentale, una delle zone a maggior rischio di attacchi
di pirati), diretta a Gibuti; l’allerta è alto, il nervosismo è addosso ad
ognuno dei presenti a bordo. I pirati, infatti, esistono ancora e non solo
nella fantasia romanzata dei libri alla Stevenson. Anzi, sono forse peggiori di
come li immaginiamo, perché quelli di
oggi sembrano non possedere la personalità che ci rendeva addirittura simpatico
Long John Silver. Ormai, insomma, non si scherza con quella gente,
completamente priva di scrupoli ma abile nell’approfittare delle leggi che in
tutto il mondo civile impongono di risponder loro con rispetto umano invece che
con delle pallottole.
Da qui in poi il racconto, nei suoi particolari, non è mai stato continuato
dai media. Qualcuno ha sparato, qualcuno è morto ma stranamente si è parlato
sempre e solo non di come sono andate le cose ma dei diritti che
avevano o meno le autorità indiane nel procedere contro i nostri militari. Stampa
e TV italiane, cioè, hanno sempre sottolineato l’offesa ricevuta ma quasi mai quella
fatta. Come se la verità sull’accaduto interessasse poco o niente a nessuno. Dato
che a noi invece interessa, abbiamo provato, spulciando fra i resoconti sulle
indagini, a capire cosa successe davvero. Andiamo avanti, questo i TG non l’hanno
mai detto…
Sono le 16,30 locali. La Enrica
Lexie si avvicina a un peschereccio (di tonni), è indiano e si chiama St. Anthony,
a bordo ospita 11 pescatori, quasi tutti a dormire dopo la nottata di lavoro, e
nessun’arma. Il mistero, che non siamo riusciti a chiarire con nessuna ricerca
(ovviamente nell’inchiesta ci avranno provato ma a noi non risulta), è il
motivo che spinse gli italiani a sparare e quanti e quali di quei sei militari
lo fecero. Da una perizia balistica emerse che i colpi sparati erano partiti da
armi Beretta (le nostre) e risalivano, in particolare, a quelle di altri due
marò, non i nostri noti. Tralasciamo i nomi ma si sanno. E questo, visto che la perizia era indiana, dovrebbe
già bastare, a giudici onesti, per scagionare i due imputati dall’accusa di omicidio (potrebbe
restare tutt’al più in piedi quella di tentato
omicidio). In realtà l’India chiese di rimandare da loro anche gli altri quattro
fucilieri (ripartiti con la nave, appena dissequestrata) ma ottennero solo una
videoconferenza. Rimane il dubbio sul perché
spararono. Quando spara un militare esperto? In tempo di pace, solo se si sente
minacciato. E quale minaccia poteva arrivare da un peschereccio? I pirati di
solito viaggiano su motoscafi veloci, in grado di mantenere facilmente la
velocità (portata al massimo per fuggire) della nave aggredita, e dileguarsi dopo l'aggressione. Un goffo peschereccio sarebbe raggiunto dalle navi militari allertate in pochi minuti. Già questo
avrebbe dovuto far capire ai marò che forse si stavano preoccupando per il
predatore sbagliato. Al riguardo i fucilieri hanno tentato in seguito di
disconoscere, in un confronto, il St. Antony come l’imbarcazione affrontata, ma
ci pare difficile per chiunque falsificare su una barca dei fori operati da
colpi Nato 5,56 mm sparati da fucili Beretta italiani, come quelli presenti in sedici copie sul St. Antony . Girone disse di aver visto, con un binocolo, gente a bordo armata di fucili pronta all’assalto. Ma nessun colpo fu sparato e nessun fucile trovato. Non si sarebbero accorti, dall’alto, se li avessero gettati in mare? La barca era in avvicinamento: questo è probabile, visto che il timoniere fu il primo ad essere ucciso. E virò solo all’ultimo, allontanandosi, proprio quando fu uccisa l’altra vittima, che si trovava a poppa. Evidentemente qualcuno riuscì a prendere il timone poco prima di un impatto che sicuramente non avrebbe migliorato le cose, per loro. Noi crediamo (vista anche l’esperienza dei marò che sono il corpo più esperto del settore) che finché non fosse stato sottobordo e avesse dimostrato ostilità forse non c’era motivo di sparare, azione fatta comunque unilateralmente e non per risposta al fuoco (16 fori di proiettili nostri sul St.Antony; nessuno sull’Enrica Lexie). Le ultime cose che abbiamo scoperto sono dubbie. Dei colpi in mare di avvertimento si parla e pare ci siano stati, ma rispettare le regole di ingaggio verso un obiettivo incolpevole crediamo che ammorbidisca solo di poco le colpe.
Le acque territoriali. Di tutto questo non si è parlato alle masse, mai sentito su un TG. Si è parlato sempre e solo di competenza sulle indagini. Si è detto qui da noi che la petroliera fosse in acque internazionali. A parte che ignorare l’“invito” indiano di entrare in porto non sarebbe stato comunque un comportamento leale (cosa facciamo? Ammazziamo due innocenti e scappiamo come un pirata della strada ubriaco?), la nostra nave è risultata invece trovarsi, ad un esame strumentale avvenuto in una seconda fase dell’indagine (all’inizio non era stato tecnicamente possibile), all’interno e non al di fuori delle acque territoriali indiane, o perlomeno in zona contigua (quella riservata all’inseguimento), cioè 25 miglia. Fuggire sarebbe stato un ulteriore reato, abbastanza ignominioso per la nostra marina ancorché commerciale. Inoltre il capitano – non militare – non era tenuto a rispondere ai comandi della Marina Militare italiana, che, capito l’antifona, gli indicava di proseguire, ma solo al suo armatore, e virò verso il porto, probabilmente per risparmiarsi guai maggiori.
Gli avvenimenti successivi li conosciamo tutti. I nostri “ragazzi” sono diventati eroi. Eroi per essere stati arrestati all’estero, non perché uccidere due pescatori sia un atto da medaglia. Tutti noi ci siamo schierati con loro, senza domandarci se avessero ragione ma solo perché erano italiani. Se il Presidente Napolitano ha ricevuto e onorato i due marò in occasione della loro licenza in Italia, per aver ucciso due marinai disarmati, al capitano dei Carabinieri Mauro Epifani, che si è fatto ferire dal fantasioso nigeriano Kabobo a colpi di machete per catturarlo senza fargli male, dovrebbe concedere almeno una statua accanto al Milite ignoto! E’ comprensibile lo sfogo della figlia di Latorre ma noi che non ne siamo parenti, vogliamo essere più razionali?
Le carceri indiane pare siano durissime, ma pare anche che i nostri due marò non le abbiano neanche conosciute. Hanno ricevuto, visto l’interesse internazionale, un trattamento molto particolare, ospitati in guesthouse militari, ottimi hotel o nell'Ambasciata italiana di Nuova Delhi, fino ad avere la libertà provvisoria con firma quotidiana e da oltre un anno solo settimanale.
I danni di questa storia nascono da una legge che non permette di usare, a difesa della pirateria, i contractors (agenti privati) al posto di militari. In quel caso lo Stato non sarebbe stato coinvolto e la questione si sarebbe risolta senza tanto fumo, tante spese e una crisi internazionale. E i danni sono stati tanti: viaggi ufficiali, risarcimento delle vittime (un probabile autogol perché costituisce un’ammissione di colpa), costi per l’armatore e per una serie di aziende coinvolte nel commercio con l’India. E si è danneggiata anche la lotta alla pirateria internazionale (fortunatamente però in calo) per l’esempio di quante conseguenze può portare un errore nel difendersi.
Cosa avrebbe dovuto fare l’Italia? Seguire la legalità, ovvero informarsi bene sui fatti accaduti prima di schierarsi e successivamente chiedere in un certo senso scusa, magari a bassa voce, ovvero puntare su un incidente involontario invece che su cavilli di competenza, come non ci aspettavamo che facessero i governi successivi a quello del maestro dei cavilli. Dovevamo ammettere l’errore e cercare di ottenere un processo rapido per omicidio colposo e con tante attenuanti che nessuno avrebbe negato. I marò sarebbero già a casa e i panni sporchi (oltre a tanti soldi) sarebbero restati nella cesta. Ma il braccio di ferro, una volta avviato, richiede un vincitore. E l’Italia, ahimé, non ha né la forza dell’America né l’acume della Svizzera nel trattare questa questione sempre più delicata.